Al G91

Ecco un estratto da "Aspro e dolce" di Mauro Corona: il bar di cui si parla credo esista ancora.







D'inverno, quando la cava chiudeva i battenti, mi arrangiavo in lavoretti occasionali, ma erano impieghi che duravano poco, al massimo fino al canto del cuculo. Era giusto un espediente per non dare fondo ai risparmi di sette mesi passati a spaccar pietre sul monte Buscada. Ma, soprattutto, cercavo un lavoro per non trascorrere l'inverno da un'osteria all'altra. Qualche ora, è vero, la dedicavo alla scultura in legno per imparare le tecniche, ma la tentazione di bighellonare con i sette compagnoni per i bar della valle era sempre in agguato.

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L'inverno del '69 lo trascorsi a Trento come manovale di terza categoria, nell'impresa dell'ertano Cice Corona Mela. C'era da tirare su un condominio di nove appartamenti. Il cantiere si trovava in via Bolognini, sulla sinistra orografica del torrente Felsina. La gente della zona ci battezzò i formichieri, perché si lavorava da buio a buio, a uso formiche. Eravamo una decina tra carpentieri, muratori e ferraioli, tutti ertani. Manovali solo tre: io, Pino e Pinotto. I vicini, mossi a pietà dal nostro lavorare al freddo, ogni tanto ci regalavano bottiglioni di vino e grappa. Mangiavamo e dormivamo in una baracca di legno adiacente il cantiere. Il vecchio Lilàn, padre di Cice, preparava i pasti. Era vita dura anche lì ma, rispetto alla cava, una vacanza.
Di sera, dopo cena, si andava a bere qualcosa e giocare a morra in un bar mitico che portava il nome, credo, di un aereo da caccia, il G91. Frequentato dai personaggi più disparati e pittoreschi, lo avevamo eletto a nostro punto di ritrovo. Bazzicavamo altri bar di Trento, soprattutto la Cantinotta, ma il G91 si distingueva per tolleranza all'ubriaco e tipo di avventori, perciò godeva della nostra preferenza.
C'era un avvocato sui quaranta, abbandonato dalla moglie, che si era dato al bere. Aveva una cultura vastissima e spesso si metteva a recitare l'Orlando furioso con piglio d'attore consumato. «Le donne, i cavalier, l'arme, gli amori» esordiva, e beveva bianco. Se qualcuno gli diceva di smetterla perché aveva rotto i coglioni, rispondeva sempre al plurale: «Zitti voi, barbari, non toccatemi l' Ariosto».
Al G91 entravano tipi incredibili: politici, nobili decaduti, ciarlatani, artisti falliti (ma chi non lo è), bevitori inveterati, giovani sbandati, capelloni e quant'altro. Tutta gente con la disfatta seduta sulla spalla. Ma il clima del locale aveva un che di bello, familiare, accogliente, non privo di un certo mistero. Noi ertani eravamo stimati e benvoluti perché non ci impicciavamo nelle robe altrui, e se notavamo qualcosa di strano, tenevamo il becco chiuso. Non per vigliaccheria, omertà o complicità. No, volevamo badare ai fatti nostri e basta. Se tutti si facessero gli affari loro il mondo funzionerebbe meglio.
Ad esempio, sapevamo che il gestore del G91 teneva dietro al bancone un cassetto pieno d'armi, soprattutto revolver a tamburo e pistole. Ogni tanto me le faceva vedere. Le teneva coperte con un tovagliolo. Ma erano affari suoi, a noi non interessavano le sue faccende. Andavamo là per giocare a morra, bere vino e stop. Una volta gli domandai di comperare una pistola a tamburo, ma il prezzo
che mi chiese non era a portata delle mie tasche. Allora disse di pazientare qualche tempo che me ne avrebbe procurata una a buon mercato.
In quel periodo, al G91 di sera si radunavano i giocatori di morra più famosi della zona perché era corsa voce che gli ertani erano imbattibili. Infatti vincevamo quasi tutte le partite. Ci davamo il cambio due per volta. Quando una coppia era stufa, subentrava l'altra a sfidare i trentini. La posta di ogni partita era un litro di vino da dividere con gli spettatori e colui che teneva i punti.
L'avvocato che declamava l'Ariosto era un morrista formidabile. L'unico a farci paura. Psicologo raffinato, intuitore, eccellente conoscitore di caratteri, dotato di una memoria inconcepibile in un bevitore, ci aveva schedato tutti. Di ognuno conosceva tendenze e ripetizioni. Sapeva che io, dopo tre battute, tendevo a uscire con l'uno. Ma anch'io sapevo che mi avrebbe fregato proprio lì, perciò alla quarta battuta cambiavo numero. Ma lui sapeva che sapevo, e che avrei cambiato numero. E sapeva pure i numeri che avrei cambiato e in che ordine li avrei messi giù. A morra si tende a ripetersi meccanicamente perché è così veloce che non vi è tempo per ripensamenti. La morra è gioco di scacchi gridato. Bisogna immaginare la mossa dell'avversario, rappresentata dal numero, fare mentalmente la somma con il tuo e battere tavolo chiamando il totale. Ma anche l'avversario fa lo stesso ragionamento, perciò cambia il numero che tu pensavi chiamasse. E così via per una sfilza infinita di mosse e contromosse, numeri e contronumeri. Chi ha più memoria, intelligenza, capacità di sintesi e colpo d'occhio diventa il morrista fuoriclasse.

[…]





PS. Felsina? Assolviamo il buon Corona, dopo 40 anni la memoria può facilmente far cambiare consonante...




3 commenti:

Anonimo ha detto...

La prossima volta che vengo in patria lo vado a cercare il G91!
Migola

Bersn ha detto...

Sulle pagine gialle c'è...io mi ricordo di esserci entrato una volta sola, a 8 anni o giù di lì per comprarmi il gelato, coi miei che aspettavano fuori in macchina

Anonimo ha detto...

Migola, la prossima volta che torni in patria ci andiamo a prendere il bianchetto!

Mariatn