Sempre al G91



[…] una sera al G91, si sfiorò la battaglia. Quantomeno la si iniziò.

lo giocavo con Furìn, un ertano sui cinquanta, morrista più che abile, ma non ai livelli dell'avvocato. Che ci stava di fronte in toga da avversario, coadiuvato da un macellaio originario della Val di Non, largo quanto un camion, dal viso rosso cupo come un caco. Furìn aveva inventato un sistema per barare e rubare così qualche punto all'avvocato. Quando chiamava otto, invece di pronunciare il numero nitidamente, sbraitava: «Uottro» in modo che, a seconda del numero gridato dal legale, Furìn poteva affermare di aver detto otto oppure quattro. Perché uottro dà un suono che assomiglia a otto ma anche a quattro. Basta saperlo gridare con il gargarismo giusto e il trucco è fatto. Difficilmente l'avversario, nella concitazione delle voci, distingue se è l'uno o l'altro. Ma il principe del foro teneva orecchio fino, e anche se racchiuso in un corpo di dimensioni lillipuziane, il suo spirito era piuttosto aggressivo. All'ennesimo uottro tirò il bicchiere, anzi il contenuto, in faccia a Furìn. Il quale afferrò l'uomo di legge per la cravatta (era sempre vestito impeccabilmente, l'avvocato) e lo tirò di qua del tavolo. Il suo compagno, il Tir della Val di Non, a sua volta afferrò Furìn. Allora io saltai sulla schiena del macellaio. Era come stare sul dòrso di un elefante. Con uno scrollone il bestione mi fece rotolare in terra. Gli ertani intervennero. Pino, Giorgio, Svalt il Rosso, Pinotto, Livio si gettarono nella mischia. Ognuno cercò nell'opposta fazione un avversario. Volò qualche bottiglia, una sedia, dei bicchieri. Eravamo tutti sbronzi e la faccenda stava prendendo brutta piega. Filai dietro al bancone dove si trovava il famoso cassetto. Tornai in mischia pistola alla mano. Contro lo sputa fuoco i pugni contano poco. Sapevo che era scarica, ma faceva scena.

Come se non ce ne fosse abbastanza di casino, ci si mise pure il gestore. Apparve sul bancone in perfetto stile western, imbracciando un aggeggio che pareva un cannone. Intimò il fermi tutti. Nessuno gli dette retta.
A quel punto una voce di tuono si levò dal tafferuglio superando ogni fracasso. Tintinnarono i bicchieri e vibrarono i vetri. Il nostro impresario, l'ertano Cice Mela, dall'alto del suo metro e novanta per cento chili, urlò un terrificante: «Basta!». All'improvviso ci fu silenzio. Il grido era stato così potente e imperativo che la rissa si fermò di colpo. Capimmo che era meglio finirla.
Cice afferrò Furìn per il bavero sollevandolo come un piumino: «Non ti permettere più di imbrogliare - sibilò o ti schiaccio come una mosca. Noi siamo gente a posto. Stiamo qui per giocare onestamente e onestamente da qui ce ne andremo. Con le nostre gambe, e senza lasciare cattivi ricordi».
Quella sera il gioco finì lì. Alcuni se ne andarono brontolando, altri si strinsero la mano in segno di pace.

Rimisi la pistola al suo posto. Il grassone che pareva un Tir mi batté una mano sulla spalla dicendo: «E tu, giovanotto, se proprio vuoi farti male cercati un altro sistema. Non montare mai più sulle mie spalle o saranno guai, capito?».
«Potevi farti male tu - gli dissi - avevo una pistola.»
«Sì, ma scarica. Sono tutte scariche. Avevi in mano un pezzo di ferro.»
«Una chiave inglese che potevo benissimo darti in testa» dissi.
«Se ci provavi te la facevo mangiare, putelòto (bambino).»

Passato il pericolo, seguitammo a bere fino alle due di notte e l'armonia tornò tra di noi come il sole dopo il temporale. Ma per me i rischi non erano ancora finiti. Per rientrare al cantiere si doveva percorrere un sentierino che dalla statale menava alla baracca passando sotto la gru, tra il banco dei ferraioli e il condominio in costruzione. Alla fine del percorso, sulla sinistra, c'era una buca profonda tre metri e larga due, irta di lance le cui punte acuminate guardavano la luna. Erano gli scarti del ferro per armare pilastri e solette, spezzoni lunghi anche un metro e mezzo buttati alla rinfusa nella fossa.

Con la sbornia che avevo non mi ricordai della voragine, e la fioca luce di una lampada appesa all'angolo della baracca non arrivava a fare chiaro fin là. Così tirai dritto verso la fossa. Avevo già messo un piede sul vuoto, quando sentii una mano afferrarmi per il colletto della giacca a vento e sollevarmi come una gru. Cice Mela s'era accorto appena in tempo che stavo per finire nel buco dove una sfilza di giavellotti mi avrebbe sforacchiato come un colapasta.

[…]

Arrivò aprile, i cuculi cantarono. Lasciai Trento e iniziai il lavoro alla cava di marmo. Dopo molti anni, quando già facevo lo scultore a tempo pieno, e la mia vita era cambiata in meglio, e Trento con il G91 erano finiti nel dimenticatoio, incontrai uno del gruppo. Teneva un giornale sottobraccio.
«Tò - disse porgendomelo - leggi, me lo hanno spedito.» Era il settimanale "Cronaca Vera". «Cosa c'è?» domandai al tipo. «Leggi» rispose.
Lo sfogliai distrattamente, fino a quando non comparve un titolo. Ora non ricordo bene, ma diceva più o meno così: "Trento. Dopo un'irruzione della polizia, chiuso il bar G91. Sequestrate armi e munizioni nonché documenti che proverebbero legami con l'estrema destra".

A me non interessava chi si riuniva o che cosa si tramasse in quel bar, mi dispiacque che lo avessero chiuso. Al G91 avevo trascorso le sere per diversi mesi e tutti ci volevano bene e ci rispettavano. Salvo quella notte dell"'uottro" che generò il tafferuglio, non era mai successo niente. Andai con la mente all'avvocato che declamava l'Ariosto, al gestore armaiolo che portava un pizzetto alla Mefisto, agli altri amici avventori abituali, tra i quali il macellaio della Val di Non. Chissà che fine avrà fatto tutta quella gente pittoresca e piena di fantasia. La sera che si rischiò la rissa, trasmettevano alla televisione la notizia della bomba di Piazza Fontana. Credo fosse il 12 dicembre '69.

Vorrei andare un giorno in quel di Trento, a cercare il G91, o ciò che resta, o quantomeno il luogo dove stava. Per tornare con il ricordo, verso la gioventù, nella nostra bettola dove si radunavano i morristi della zona. Magari troverò una banca, un barbiere, un panettiere o addirittura un supermarket. Chissà. Forse è meglio ricordarlo così com'era, con la sua umanità, il suo calore, i suoi personaggi, il simpatico gestore collezionista d'armi. E, perché no, i suoi misteri, le cantate e quel Teroldego forte e nobile che alla sera scorreva a fiumi.

Prima di partire per la cava in primavera, al G91 mi avvicinò un tizio che conoscevo e mi porse una scatola da scarpe chiusa con lo spago. «Tieni - disse - dammi ventimila lire, ma io non so niente né ti ho mai visto». In baracca tagliai lo spago e sollevai il coperchio. Apparve ciò che immaginavo: un revolver a tamburo calibro nove e un sacchetto di cartucce. Portai a casa il ferro e lo nascosi in soffitta sotto una trave del tetto. Con quell'arma e qualche bottiglione di vino rischiai di fare guai grossi. Ma occorre procedere con ordine.


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